La svolta imprevista nel processo per la morte di hassan sharaf
Il dibattimento per la tragica morte di Hassan Sharaf, il giovane detenuto egiziano di 21 anni deceduto il 30 luglio 2018 all’ospedale di Belcolle a Viterbo, dopo un drammatico tentativo di suicidio nella cella di isolamento del carcere di Mammagialla, ha preso una piega inaspettata. Nell’ultima udienza, le testimonianze chiave, provenienti per giunta dalla parte dell’accusa, hanno di fatto “scagionato” gli imputati, gettando nuove ombre e interrogativi su un caso che ha già sollevato profonde riflessioni sulle condizioni detentive e sulla cura dei soggetti più fragili all’interno delle strutture penitenziarie. La vicenda, fin dal suo tragico epilogo, ha acceso i riflettori su presunte omissioni di vigilanza e cure inadeguate, ma le recenti deposizioni sembrano ridisegnare il quadro accusatorio in maniera significativa, evidenziando la complessità e le diverse prospettive con cui si può analizzare un evento così drammatico.
Le testimonianze “scagionanti”: Nessun allarme apparente rilevato
Il fulcro della sorpresa in aula risiede nelle dichiarazioni dei testimoni chiamati dall’accusa, i quali hanno affermato di non aver notato alcuno stato d’animo preoccupante in Hassan Sharaf nei momenti precedenti il tentato suicidio. Una funzionaria giudico-pedagogica, ascoltata durante l’udienza, ha testimoniato in modo categorico: “Non ho ravvisato nulla di particolare, altrimenti lo avrei segnalato, come prevede la procedura in casi di rischio suicidario”. Questa affermazione riveste un peso notevole, poiché proviene da una figura professionale preposta alla sorveglianza e al supporto psicologico dei detenuti, la cui formazione specifica dovrebbe consentirle di identificare segnali di disagio. Se persino un testimone dell’accusa non ha rilevato allarmi, ciò potrebbe suggerire che non vi fossero manifestazioni evidenti di crisi nel giovane, mettendo in discussione l’accusa di omessa vigilanza o negligenza, almeno per quanto riguarda la percezione immediata del suo stato. La sua deposizione implica che le procedure standard per la gestione dei rischi suicidari sarebbero state applicate in assenza di segnali che ne giustificassero un’attivazione specifica, o che tali segnali non fossero semplicemente percepibili.
Gli imputati e il processo per omicidio colposo
Al centro di questo complesso procedimento giudiziario per omicidio colposo si trovano Elena Niniashvili, medico del reparto di medicina protetta dell’ospedale di Belcolle, e Massimo Riccio, assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria. Entrambi sono difesi dagli avvocati Fausto Barili e Giuliano Migliorati. L’accusa di omicidio colposo sottintende che la morte di Sharaf non sia stata intenzionale, ma derivante da un’ipotetica negligenza, imprudenza o imperizia nelle loro mansioni, che avrebbe contribuito al tragico epilogo. Le recenti testimonianze favorevoli agli imputati potrebbero ora rafforzare notevolmente la linea difensiva, che presumibilmente mirerà a dimostrare l’assenza di colpa da parte loro, sostenendo che abbiano agito secondo le procedure e in base alle informazioni disponibili sullo stato di Sharaf. La loro posizione, cruciale per l’esito del processo, è ora sottoposta a una valutazione ancora più approfondita alla luce di queste nuove dichiarazioni che relativizzano il presunto stato di allarme del detenuto.
Le parti in causa: Famiglia, ministero e asl nel contesto giudiziario
Il caso vede la famiglia di Hassan Sharaf costituita parte civile, assistita dagli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano, nella sua ricerca di giustizia e verità per la perdita del proprio caro. La loro presenza in tribunale testimonia il desiderio di fare piena luce sulle circostanze della morte del giovane, sperando che il processo possa stabilire eventuali responsabilità e offrire risposte. Parallelamente, il Ministero dell’Interno e l’ASL sono coinvolti come responsabili civili, un aspetto che estende il raggio d’azione del processo oltre le responsabilità individuali, implicando una potenziale responsabilità istituzionale. Questo significa che, qualora venisse accertata una responsabilità degli imputati, o delle procedure e strutture che rappresentano, le istituzioni potrebbero essere chiamate a risarcire i danni alla famiglia. Tale configurazione processuale evidenzia la complessità delle dinamiche all’interno degli istituti penitenziari e la ricerca di accountability sia a livello individuale che sistemico.
Il profilo di hassan sharaf: Le osservazioni dello psichiatra
Per comprendere meglio il contesto clinico di Hassan Sharaf, è stata ascoltata la testimonianza di uno psichiatra del Centro di salute mentale che lo ebbe in cura. Il medico ha dichiarato: “Quando lo visitai era tranquillo. Penso che il trasferimento dal carcere di Regina Coeli a quello di Viterbo fosse dovuto a problematiche relative alla tossicodipendenza ed era seguito dal Serd per recuperarlo, vista la giovane età. Prendeva delle gocce di un farmaco che serve a indurre il sonno la sera”. Questa deposizione fornisce un quadro del detenuto come soggetto con una storia di tossicodipendenza e che necessitava di assistenza specialistica, ma che al momento dell’osservazione da parte dello psichiatra non mostrava segni acuti di disagio. La terapia per l’induzione del sonno suggerisce la presenza di problematiche pregresse legate all’insonnia o all’ansia, comuni in soggetti con la sua storia clinica, ma non necessariamente indicative di un imminente rischio suicidario in quel preciso momento. Queste informazioni aggiungono un ulteriore tassello alla complessa valutazione dello stato psicofisico di Sharaf.
La fragilità non rilevata: L’allarme della dottoressa flaminia bolzan
In netto contrasto con le percezioni di tranquillità emerse dalle altre testimonianze, la psicologa Flaminia Bolzan, consulente delle parti civili, ha presentato una prospettiva diversa, basando la propria relazione su documentazione risalente a un anno e mezzo prima del tragico evento. La dottoressa Bolzan ha affermato con forza che “Sharaf era un soggetto fragile”. Ha poi rincarato la dose, sottolineando come “La terapia che gli era stata somministrata andava monitorata e adattata a seconda delle sue necessità”. Questo punto è cruciale: anche in assenza di segnali palesi di disagio acuto, la storia di fragilità di Sharaf, legata alla tossicodipendenza e al contesto carcerario, avrebbe richiesto un’attenzione e un monitoraggio costanti e personalizzati. La sua analisi suggerisce che il problema non fosse tanto la mancanza di una percezione immediata di crisi, quanto una potenziale carenza nella gestione a lungo termine di un paziente vulnerabile, le cui esigenze avrebbero dovuto essere costantemente rivalutate e adattate, specialmente in un ambiente stressante come quello carcerario. Questa visione introduce l’elemento di una possibile inadeguatezza strutturale o procedurale nella cura di soggetti ad alto rischio.
Il contesto tragedico e le indagini correlate
Il contesto della morte di Hassan Sharaf è intrinsecamente tragico: il giovane si tolse la vita in una cella di isolamento, un ambiente già di per sé estremamente gravoso per la psiche umana, soprattutto per individui fragili. Questa condizione di isolamento rende ancora più critica l’attenzione verso il benessere psicologico dei detenuti. Le indagini successive, come quella che ha portato all’acquisizione della perizia sulle lettere inviate alla madre, cercano di ricostruire il mosaico dello stato d’animo di Hassan, esplorando ogni possibile indizio che potesse rivelare le sue sofferenze interiori. Queste lettere potrebbero fornire elementi preziosi per comprendere se e come il giovane esprimesse il suo disagio, anche in modi non immediatamente percepibili agli operatori. La complessità di valutare a posteriori lo stato mentale di una persona, e di stabilire se i segnali di allarme fossero presenti e riconoscibili, rappresenta una delle sfide maggiori per la corte in questo processo.
Conclusioni: La ricerca di verità in un quadro contraddittorio
Il processo per la morte di Hassan Sharaf si snoda così tra testimonianze divergenti e interpretazioni contrastanti. Da un lato, l’assenza di segnali di allarme immediati rilevati da chi era preposto alla sorveglianza; dall’altro, la denuncia di una fragilità preesistente che avrebbe richiesto un’attenzione e un monitoraggio più assidui. La giustizia è chiamata a districarsi in questo complesso intreccio, dovendo stabilire se la cura e la sorveglianza offerte fossero adeguate alle reali condizioni del detenuto, aldilà delle percezioni del momento. La corte dovrà valutare se, nonostante l’assenza di sintomi acuti, la storia clinica di Hassan Sharaf non imponesse un approccio più cauto e protettivo, e se le procedure adottate fossero sufficienti per prevenire un esito così infausto. Il processo continua, con l’obiettivo di fare piena luce su una morte tragica avvenuta in custodia dello Stato, cercando di bilanciare le responsabilità individuali con quelle del sistema, in una ricerca di verità che si annuncia lunga e complessa.
